Il racconto del Grande Fiume

I. Le origini del fiume Po


Dieci milioni di anni fa il Po si presentava come un modesto torrente che non si distingueva affatto dalle migliaia di altri corsi d’acqua dell’area e, come tutti questi, si gettava nel grande golfo marino che occupava quella che adesso è la Pianura Padana. Il fondo di questo grande golfo era molto corrugato, essendo soggetto alle stesse forze che avevano fatto innalzare le Alpi e gli Appennini.
Verso l’attuale Bolognese si era scavata naturalmente una profonda fossa che gradatamente si sollevava, spostandosi verso settentrione: il fondale marino si innalzava in quella che dai geologi è detta “Dorsale Ferrarese”, fino ad emergere in alcune isole. Le altre isole di questo vasto golfo erano quelli che ora sono i monti Berici, i monti Lessini ed i Colli Euganei.

 

Nel corso delle Ere geologiche, la zona della Dorsale Ferrarese che si era venuta a creare con i sommovimenti tettonici dei millenni precedenti sprofondò, esattamente come si era formata, e tutto il territorio ritornò sott’acqua.

Il Po e centinaia di altri torrenti trasportavano tonnellate di materiali erosi dalle montagne e li accompagnavano fino al grande golfo che costituiva la zona padana di allora: qui i materiali più pesanti si depositavano, mentre quelli più leggeri si disperdevano in mare, posandosi poi sul fondo. Questo processo continuò per milioni di anni e, lentamente, portò alla formazione della Pianura Padana.

Tutta l’area del Ferrarese (e quella Padana in generale) è però soggetta al fenomeno della subsidenza, cioè di sprofondamento della crosta terrestre, che permette quindi il continuo sovrapporsi di nuovi sedimenti: senza l’apporto di nuovi detriti da parte dei fiumi, la Pianura Padana andrebbe incontro ad un progressivo abbassamento, fino ad essere di nuovo occupata dal mare.

Un milione di anni fa iniziò una fase di importanti glaciazioni ed il livello del mare si abbassò consistentemente, cosicché il fondo del grande golfo marino emerse dalle acque. Il Po, inizialmente solo uno dei tanti torrenti discendenti dalle Alpi verso i terreni appena emersi, cominciò ad ingrossarsi sempre di più grazie alle acque dei numerosi affluenti, e diventò il corso d’acqua principale di questa nuova pianura. I nuovi fiumi però portavano enormi quantità di detriti e sedimenti che si depositavano quando la corrente rallentava: per questo motivo le depressioni si riempivano e di conseguenza l’azione del Po e dei suoi affluenti era quella di rendere sempre più livellata la pianura.

Quando le acque fluviali fuoriescono dall’alveo, infatti (sia in occasione delle periodiche esondazioni che delle occasionali ma più rovinose rotte), depositano in prossimità di questo le particelle più grossolane (ghiaie e sabbie), mentre i limi e le argille, più fini, vengono mantenute in sospensione e rilasciate più lontano dal corso del fiume. Per questo, i corsi d’acqua, specialmente nella loro parte pianeggiante, tendono ad essere limitati da argini naturali sabbiosi che, con il passare del tempo, si innalzano insieme agli stessi alvei rispetto alle zone inter-fluviali: queste diventano frequentemente paludi, con accumulo di resti vegetali che, in ambiente poco ossigenato, danno luogo spesso a depositi di torba, maggiormente comprimibili rispetto ai detriti più grossolani.

Nel basso corso, un fiume forma sovente curve e meandri, in quanto l’acqua tende a seguire la maggiore pendenza. All’interno dell’alveo la velocità non è costante ma maggiore al centro e minore ai bordi, il che permette il deposito laterale di sedimenti e la conseguente formazione di argini naturali. Uno scarto di velocità si ha anche in presenza di meandri, per cui nella parte interna della curva l’acqua ha una velocità minore (deposito), mentre questa è maggiore nella parte esterna (erosione); nel tempo si ha così una progressiva accentuazione del meandro, fino a quando il fiume riesce a rompere l’istmo di terra che divide i due bracci, rettificando nuovamente il suo corso.

Tutto ciò è riscontrabile nel paleoalveo meandriforme esistente fra Vigarano Pieve e Mizzana, rettificatosi probabilmente fra la fine dell’Età del Bronzo e quella del Ferro.

I meccanismi sedimentari sopra descritti sono inoltre influenzati dai cambiamenti climatici: momenti di raffreddamento e di maggiore piovosità, con piene violente, coincidono con periodi di maggiore variabilità della rete fluviale.

Il maggior tasso di sedimentazione dei fiumi riesce a compensare la subsidenza, mentre nelle zone interfluviali questo non avviene. Dato che qui, inoltre, i detriti sono maggiormente compressibili, queste zone tendono spontaneamente a diventare sempre più depresse. Per questo, in condizioni naturali, i fiumi della bassa pianura tendono a spostarsi frequentemente anche di vari chilometri, andando ad occupare le zone depresse interfluviali, in conseguenza di una o più rotte, e ripartendo così i sedimenti su tutta la pianura per mantenere una morfologia tendenzialmente piatta, anche se la fascia fluviale risulta essere in ogni momento quella più alta.

Con il cambio del corso del fiume vengono a formarsi i cosiddetti paleoalvei (o alvei fossili), cioè gli alvei precedentemente percorsi dall’acqua, ed ora abbandonati. Questi terreni sono particolarmente importanti dal punto di vista insediativo, sia per la loro posizione rilevata rispetto al resto del territorio circostante, sia per la composizione stessa del loro terreno, principalmente formato da ghiaie e sabbie (a differenza dei circostanti limi ed argille); tutto ciò configura aree allungate (facilmente riconoscibili anche dalle foto aeree) che rimangono asciutte per un maggior periodo rispetto al territorio circostante, essendo più in alto e permettendo un più veloce drenaggio delle acque, oltre ad essere più fertili delle insalubri zone limose; sui paleoalvei si ritrovano quindi sovente percorsi o insediamenti. Questa regola di formazione di centri abitati e di percorsi è valida per tutto il Medioevo, ed apparirà superata solo in età moderna, quando il popolamento si espanderà anche nelle nuove ampie zone prosciugate e rese disponibili con le bonifiche.

Nei millenni scorsi il paesaggio del Ferrarese (ma più generalmente tutta la Bassa Padana) era molto diverso dall’attuale. I dislivelli fra le sponde naturali dei fiumi e le zone adiacenti erano abbastanza lievi e le rotte erano molto più frequenti ma con effetti meno devastanti: le piene autunnali e primaverili potevano espandersi su grandi aeree, ed il livello dell’acqua non si innalzava mai in modo eccessivo.

Sia le zone paludose interfluviali che quelle emerse coperte da boschi erano fonti di cibo e legname, usato sia come combustibile sia, soprattutto, come principale materiale da costruzione, almeno fino al XII Secolo, come testimoniato dagli scavi archeologici di corso Porta Reno1; i fiumi e le zone paludose erano inoltre efficienti vie di comunicazione fra i vari centri.

L’insediamento umano, tuttavia, risentiva notevolmente della mutevolezza dell’ambiente, prediligendo, come si è detto, le fasce allungate degli argini naturali (o dei paleoalvei) e dei cordoni litoranei; anche le strade si snodavano sulle sponde dei fiumi, in modo da rimanere asciutte (e quindi percorribili) per il maggior tempo possibile: spesso si sviluppavano come vie di alzaia, usate cioè per il traino delle barche.

L’azione antropica sui fiumi ha teso, però, ad alterare l’equilibrio naturale creato fra territorio e corso d’acqua: gli interventi di bonifica (oltre al recente emungimento delle falde) hanno accelerato l’abbassamento del suolo, mentre la realizzazione di alti e continui argini artificiali ha fatto in modo che i fiumi depositassero i sedimenti all’interno del proprio alveo, diventando così sempre più pensili, e rendendo le eventuali rotte certamente meno frequenti ma sempre più catastrofiche.

 


  1. Bryan WARD-PERKINS, Archeologia urbana a Ferrara: scavi nel comparto di San Romano, in: Musei Ferraresi, bollettino annuale n. 9-10 del 1981.